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Ynis Afallach Tuath

X LA LANCIA
Venerdì, 07 Agosto 2009 - 08:21 - 3500 Letture
Lunologia Am gaí i fodb feras feochtu
(Luna Piena tra l’8 luglio e il 4 agosto)

Benvenuta, Luna della Lancia!
Il potere del sole, abbattuto,
inizia a diminuire e i giorni ad accorciarsi,
ma la verde e tiepida terra
continua a gioire della propria fertilità.
Ci rammenta che la nostra gioia
deve dare i suoi frutti prima che l’anno finisca.



Siamo a cavallo tra il mese di Eqvos e quello di Elembivios. Il nome del mese di Eqvos, tradotto normalmente come “tempo dei cavalli”, rappresenta un piccolo enigma. Se sembra evidente che faccia riferimento ai cavalli, avendo come omologo il termine latino indicante questo animale (con la trasformazione labio-velare della sequenza k+u in p), non si comprende allora perché altrove ovunque i Celti indicassero i cavalli con la radice epo-. Si suppone perciò che il termine eqvos sia un arcaismo la cui conservazione sia giustificata all’interno di un documento istituzionale quale il calendario druidico oppure che il termine sia derivato direttamente dal latino all’epoca della trascrizione delle fonti orali del calendario stesso (I sec. d.C.).

Il cavallo fu introdotto in Europa dagli Indoeuropei e permise loro spostamenti veloci e la predominanza della loro cultura, da cui si sviluppò,in seguito,quella celtica. E’ un simbolo di potere, velocità e prestigio, ed è l’animale più raffigurato nella produzione numismatica celtica.
La sua particolare caratteristica di animale adatto al trasporto e al movimento lo rende un essere legato sia all’elemento oscuro che a quello luminoso: alla notte segue il giorno e il cavallo diviene quindi l’animale che “porta la luce” (il carro del sole guidato da Apollo è trainato da cavalli); ma è anche il simbolo della Dea nel suo aspetto oscuro e terribile di Signora della Battaglia e della Morte, di Regina del Reame Oscuro e della divinazione. Questo duplice aspetto spiega la sua associazione con questo periodo: dopo Litha, momento di massima luce, e Lughnasadh, il periodo più caldo, il sole e la luce iniziano il loro declino in favore dell’oscurità.
Sembra che in Irlanda sia stato Lugh ad introdurre l’arte dell’equitazione e fu lo stesso dio ad istituire le celebrazioni di Lughnasadh in cui avvenivano ed avvengono corse di cavalli (vedi più avanti). La tradizione irlandese riporta che i Tuatha de Danann portarono degli ottimi cavalli, splendidi rappresentanti luminosi rispetto ai precedenti oscuri dei Fomori. Il cavallo diviene così colui che ben conosce le strade dell’AltroMondo e per questo ne è un’ottima guida, potendo viaggiare liberamente fra i mondi, come avviene a Manannan Mc Llyr e Lugh che cavalcano il famoso “Aonbharr dallo Splendido Manto” fra l’isola di Emain Ablach e le coste d’Irlanda. Non a caso in a questo periodo si onorano gli antenati.

I Celti ritenevano il cavallo il simbolo della Dea che si manifestava sotto diversi aspetti, tra cui quello di Sovranità, o come incarnazione dello Spirito del Grano. Soprattutto nel suo aspetto di giumenta bianca, il cavallo è associato alle dee irlandesi Etain Echraidhe, Niamh dalle Trecce Bionde, Macha e Rhian Gabhra (la corrispondente gaelica di Rhiannon), alla dea gallese Rhiannon, a quella gallica Epona, a quelle greche Demetra e Persefone, a quella frigia Cibele…
I cavalli sono intimamente legati all’accoppiamento tra il Re e la Terra, o tra il Re e la Sovranità. Ad esempio, l'ecclesiastico medievale Giraldus Cambrensis registrò (e probabilmente sensazionalizzò) un rito di incoronazione irlandese in cui una giumenta bianca rappresentava la sovranità, a cui il re veniva simbolicamente unito. L'idea implicita potrebbe essere che, almeno in parte, la dea della sovranità dovesse letteralmente sostenere il regnante. Lui non la controllava; se lui l'avesse trattata male, lei avrebbe potuto disarcionarlo. Solo attraverso un'equa collaborazione il reame avrebbe potuto prosperare.
Le dee connesse ai cavalli sono conosciute sia nella mitologia britannica che in quella irlandese e, da un periodo ancora più antico, esse sono presenti anche nella cultura gallica, con statue ed iscrizioni. Come dicevamo, la dea cavallo gallica è Epona; il suo nome proviene dalla parola epos, che significa appunto "cavallo". La dea cavallo gallese è invece Rhiannon in cui nome è in realtà un titolo, interpretato come "Grande Regina". E’ interessante notare che un epiteto romano per Epona era “Regina”. Entrambe queste dee quindi, rappresentano la Sovranità.
Epona si guadagnò molta popolarità tra gli ufficiali di cavalleria romani - molti di loro erano infatti originari della Gallia - che la adottarono come protettrice e portarono la sua adorazione in tutto l'Impero Romano. Sono state scoperte numerose statue e rilievi celto-romani di Epona; viene sempre dipinta con i cavalli. Alcune immagini la mostrano mentre cavalca una giumenta spesso accompagnata da un puledro. A volte la giumenta allatta il puledro, mentre in altri casi Epona sta nutrendo il piccolo da una patera (ciotola poco profonda per offerte). Altre immagini mostrano la dea in piedi o seduta tra due cavalli o due gruppi di cavalli. L'altro importante aspetto di queste descrizioni di Epona è che spesso tiene una borsa, una cornucopia, della frutta, del grano o del pane. Occasionalmente viene dipinta con una chiave o un tovagliolo. Queste immagini di Epona, assieme a testimonianza scritte del mondo romano, mostrano che era adorata come dea dell'abbondanza, della fertilità, e dei cavalli. La frutta, il grano e gli stessi cavalli la connettono con la Terra, ma che dire della chiave e del tovagliolo? Il tovagliolo rappresenta il fazzoletto che gli ufficiali romani agitavano come segnale per iniziare una corsa di carri o di cavalli. Potrebbe simbolicamente indicare l’inizio di un viaggio o di una sfida. La chiave è un simbolo importantissimo, che potrebbe simboleggiare le chiavi dei cancelli dell’AltroMondo, da cui i suoi cavalli vanno e vengono e che sono l’ultima meta da raggiungere prima di iniziare un nuovo ciclo.

Rhiannon si collega ad Epona fortemente, a cominciare dal suo legame con i cavalli. Poi c'è l'aspetto dell'abbondanza e della fertilità: Rhiannon è nota per la sua generosità quando, nel Primo Ramo dei Mabinogion, distribuisce abbondanti doni ai nobili del Dyfed dopo il suo matrimonio con Pwyll. Alla festa del suo matrimonio, rivela anche di possedere una borsa magica che poteva contenere un infinito mucchio di cibo. Nel Terzo Ramo, la sua scomparsa è associata alla scomparsa del popolo del Dyfed, del bestiame e dei raccolti; quando gli sforzi di suo marito Manawyddan per raccogliere il grano dai suoi campi porta al suo ritorno dall'imprigionamento nella fortezza incantata, assieme a lei torna anche l'abbondanza sulla terra del Dyfed.
Uno dei ruoli di Manawyddan nel Terzo Ramo è infatti quello di Difensore del Raccolto. Egli, come il suo corrispettivo irlandese Manannan, è figlio di un’indistinta divinità degli oceani, Llyr, e ciò lo rende una divinità marina oltre che ctonia. Manannan e Manawyddan, prendono il nome dall'Isola di Man (Mannin in manx, Mana o Manu in irlandese, Manaw in gallese), che si trova nel Mare d'Irlanda tra Britannia e Irlanda. Il folklore e le leggende manx sono pieni di riferimenti e storie su Mannanan (la versione manx del nome), tradizionalmente considerato il primo re di Man e suo eterno guardiano. Entrambe le divinità possiedono un grande mantello che cattura la luce e riflette molti colori e una borsa magica, probabilmente la stessa di Rhiannon.

Secondo il mito, Manannan risiede su un'isola che abbiamo già citato, Emain Ablach, un nome misterioso il cui significato non è chiaro, ma che sembra avere qualcosa a che fare con gli alberi di mele, presumibilmente alberi carichi di frutti miracolosi che donano l'immortalità a coloro che li mangiano. In un racconto, Manannan scortò il re irlandese semi-storico Cormac Mac Airt,vissuto nel III secolo d.C. dal suo trono reale a Tara fino all'AltroMondo, dopo averlo invitato a partecipare ad una festa, tenuta dal dio fabbro Goibhniu, ma presieduta da egli stesso. Era la festa in cui i Túatha Dé Danann ricevevano l'immortalità mangiando la carne dei maiali di Manannan e bevendo la birra di Goibhniu. Prima di riaccompagnare lo stupito re nella realtà ordinaria, Manannan diede a Cormac il leggendario Ramo d'Argento: il ramo di un albero di melo, carico di frutti d'oro, che quando veniva agitato poteva calmare tutti coloro che udivano il suo suono mormorante, musicale, o se serviva poteva aprire una porta per l'AltroMondo. Alla morte del re irlandese, il ramo fatato tornò agli Dei.
Manannan ha la reputazione di benefattore, così come altri dei: conferì molti doni magici a Lugh per aiutarlo nella sua cerca per soggiogare i Fomori, tra cui una barca che obbediva ai pensieri del suo navigante e poteva venir guidata senza remi o vele, un cavallo che poteva viaggiare altrettanto velocemente per terra e per mare, e una spada invincibile chiamata Fragarach ("colui che risponde"), che poteva perforare ogni armatura. Al figlio di Lugh, Cú Chulainn, il dio del mare donò una visiera magica.
Come dio del mare, Manannan viaggia sulla superficie del mare su un carro trainato da "cavalli" fatti di onde (i cosiddetti “cavalloni marini”) fino ai cancelli tra questo e l'AltroMondo di cui è guardiano (poiché dopo la morte, si dice, uno deve viaggiare per mare per raggiungere la Terra della Gioventù), ma è anche protettore della terra (dopo tutto, la miglior difesa dell'Irlanda è il fatto che è circondata dalle acque). Forse in origine egli era un dio ctonio, come dimostra il suo corrispettivo gallese Manawyddan, Difensore del Raccolto. Potrebbe essere associato anche a Posidone. Quest’ultimo fu in un primo tempo un dio ctonio, come è messo in evidenza dall’epiteto gaieokhos che Plutarco interpreta come “colui che possiede la terra”, “signore della terra”. Anche quando fu diventato marino, Posidone rimase il dio dei sismi, il “forte tonante Ennosigeo” (Esiodo, Teogonia), conformemente alla sua originaria vocazione di “potenza attiva che scuote la terra”. La natura originariamente ctonia di queste due divinità spiega perché ad esse sia consacrato il cavallo1, e le associa quindi alla festività di Lughnasadh. Essa segna il culmine della Stazione del Raccolto, che indica l’abbondanza e la fertilità dei suoli, e rimanda al sacrificio del grano, e quindi alla morte e alla rinascita.

Nella mitologia irlandese è scritto che la festa di Lughnasadh (letteralmente “assemblea di Lugh”) era stata istituita dal dio Lugh per commemorare la madre adottiva Tailtiu (etimologicamente è il nome della terra fertile, la dea che offre il proprio corpo per il sostentamento del popolo, oltre che ad essere uno dei nomi dell’Irlanda), che sacrificando la propria vita aveva assicurato la prosperità al popolo. Come riconoscimento per questo sacrificio i Celti organizzavano mercati e gare di poesie, e giochi funebri tra cui grandi corse di cavalli. Graves tuttavia non è d’accordo sull’interpretazione di Lughnasadh come una commemorazione di Tailtiu, dicendo che questa è una modificazione altomedievale della festa celtica che intendeva invece celebrare la morte del dio Lugh, più che quella della madre. Fino al secolo scorso molte persone si riunivano sulle alture del Galles e dell’Irlanda per piangere la morte di Llew Llaw e questo avveniva durante la giornata della fiera di Lammas. E’ plausibile che entrambe le versioni siano corrette poiché, a livello simbolico, sia il grano che viene mietuto e rilascia i semi per il futuro raccolto che il declino del sole rappresentano il sacrificio di morte e rinascita del principio divino della natura (Tailtiu e Lugh),.

Nel ciclo lunare di Kondratiev, questa è la Luna della Lancia, associata, nel canto di Amairgen, al verso che recita “Sono una lancia acuminata che propaga la battaglia”. In questo periodo arriva una discontinuità nell’incedere dell’anno, una massiccia inversione delle energie della Terra con la riaffermazione delle forze giamos. Fino ad ora la Tribù ha collaborato attivamente con le forze samos della crescita nella Terra; ma con l’avvicinarsi del Raccolto emergono nuovi bisogni e la crescita deve essere arrestata su molti livelli. Nonostante il potere del sole abbia passato il proprio picco e i giorni si stiano gradualmente accorciando, il suo calore continua senza sosta, al punto da minacciare le piante e le messi. Erbe infestanti proliferano col calore, così come generazioni di insetti e roditori si fanno più numerosi che mai, ponendo ulteriori pericoli per il Raccolto. E’ come se il sole, ormai non più giovane, abbia lanciato un’ombra distruttiva di sé sul mondo che aveva riscaldato con un fuoco amico; mantiene ora soltanto il potere di bruciare e opprimere, che in termini mitologici è espresso dall’immagine di Balor Occhio Malvagio.
Per rispondere alle necessità della Tribù si devono invocare nuove forze in opposizione all’energia dominante di samos, il che porta piuttosto naturalmente alla metafora di “battaglia” rappresentata mitologicamente come “Guerra tra gli Dei”.
Il simbolo primo di questa battaglia per il Raccolto è la Lancia, uno dei quattro Tesori portati con sé dai Túatha dé Danann dalle quattro città dell’AltroMondo dove hanno appreso le Arti. La Lancia viene da Gorias, il Forte che brucia, dov’era custodita dal saggio Esrus (il cui nome deriva probabilmente dall’Ezra biblico), e fu giustamente data a Lugh, padrone di tutti i talenti e Signore del Raccolto. Chiunque l’avesse in mano era sicuro della vittoria. Si tratta di un’arma ambigua, perché è essa stessa ardente di natura, e sembra che in origine avesse il potere baloriano di sopprimere la fertilità della Terra, come nel racconto del Colpo Doloroso(2); ma nelle mani di Lugh essa diviene un modo per “combattere il fuoco col fuoco”, poiché si trasforma nel Fulmine, il messaggero delle piogge che scacciano la canicola estiva, una delle immagini più importanti associate a Lughnasadh. Ecco perché questa lunazione è detta anche Luna del Tuono.

La Lancia ha un messaggio per la nostra vita interiore. Mentre prima era sufficiente per noi accumulare energia ed esperienza, ora dobbiamo utilizzare quell’energia in modo creativo, plasmandola fino a farla diventare qualcosa che possa essere condiviso con gli altri e che esista indipendentemente da noi. Dobbiamo iniziare ad imporre dei limiti per evitare di dissipare l’energia che abbiamo. E qui possiamo eseguire con fiducia il modello di Lugh: poiché, mentre il fuoco di Brigit, dominante nella prima parte dell’anno, fornisce l’ispirazione grezza per qualsiasi impresa umana, Lugh è esperto nel concentrare quel fuoco e nel plasmarlo come farebbe un artista o un artigiano. Come Dea e Dio della Tribù essi formano una coppia collaborativa; il Calderone dell’una arriva all’ebollizione, sprigionando vita creativa quando viene toccato dalla Lancia dell’altro.
Lugh non è un dio supremo, perché è al di sopra di qualsiasi classificazione, oltre ogni funzione, possedendo le capacità di tutti gli altri Dei riunite in sé; come i Druidi, gli unici ad essere al di sopra delle parti, ad appartenere ad ogni túath ed a nessun al tempo stesso, a possedere tutte le capacità. Uno dei suoi soprannomi è Samildanach, letteralmente “dalle molte arti”. Cesare, nel De Bello Gallico definisce Lugh come il dio più importante per i Celti e lo identifica con la figura a lui conosciuta di Mercurio, suo unico punto di paragone, definendo il dio celtico “inventore di tutte le arti”. In effetti Lugh è il patrono di ogni tipo di abilità artistica e di capacità creativa: dalla falegnameria alla carpenteria, dall’artigianato del metallo all’arte del commercio e della guerra, dall’oreficeria alla scultura della pietra. E’ anche il protettore dei viaggiatori (a cui è associato il cavallo).
Nel mito che lo riguarda, Lugh svolge ad un certo punto il ruolo di campione del re: non si sostituisce al re Nuada, ma ne fa le veci in battaglia quando questi non può parteciparvi a causa della sua menomazione al braccio. Lugh diviene quindi il “braccio destro” del re, il suo campione, figura che lo accomuna sia a suo figlio Cuchulainn che al personaggio di Lancillotto del Lago, cavaliere prediletto di Artù e suo braccio destro. Anche Cuchulainn possiede una lancia dai poteri mitici, la Gae Bolga (letteralmente il “lancio della saetta”), ed è padrone di due splendidi destrieri che trainano il suo carro da battaglia: il Liath Macha (“Grigio di Macha”) e il Nero di Saingliu, nati nello stesso istante in cui nasceva l’eroe.
Lugh possiede diversi oggetti, (alcuni dei quali appartenenti a Manannan Mc Llyr, da cui il dio è stato allevato in una delle versioni del mito), tra cui la lancia e una fionda. Il suo corrispettivo gallese è Llaw Llew Gyffes, figlio di Arianrhod. Anche a Llew sono associate la fionda e la lancia; il suo nome significa “leone dalla mano ferma”, e gli fu dato dalla stessa madre quando lo vide colpire con una fionda uno scricciolo esattamente tra l’osso e il tendine; in più fu ucciso da Goronwy Pevr con una lancia speciale, e dopo essere stato riportato in vita da Gwydion, si vendicò del suo assassino uccidendolo con il suo stesso colpo.
In Europa sono state trovate quasi cinquecento iscrizioni votive e trecentocinquanta monumenti figurati dedicati a Lugh e ventisette località europee derivano il loro nome dal dio, come Lione (l’antica Lugdunum, la “Fortezza di Lugh”), Loudan, Léon e Laon in Francia, Leyda in Olanda, Lugo in Spagna; Carlisle (la Luguvallum romana) in Scozia, Londra (Lugdunum, poi Londinium in latino) in Inghilterra.
Il dio è spesso accompagnato dalle rappresentazioni di una dea che incarna l’abbondanza di ricchezza e benefici materiali di nome Rosmerta. Il suo nome significa la “Grande Dispensatrice” e deriva dalla radice gallica smer- che vuol dire sia “preveggenza” che “provvigione” (da smerth-smertu = “provvista”, “risparmiare”, “provvedere”). E’ rappresentata con un paniere di frutti o un corno dell’abbondanza, una borsa e una patera. In alcune statue della Gallia Romana a volte porta il Caduceo3 e perciò viene considerata una controparte femminile di Mercurio. Sembra sia associata, oltre che all’abbondanza, anche alla rigenerazione e alla rinascita. La torcia che porta è simbolo di morte e vita, di guida sul cammino, di luce nelle tenebre, di chiaroveggenza fra le nebbie del mondo. Il suo collegamento con Rhiannon ed Epona, a partire dalla sua simbologia, per finire con i suoi attributi, è quindi lampante.


Leone: influssi e mitologia

Il Leone è un segno Maschile, di Fuoco, Fisso e governato dal Sole. Il glifo è la stilizzazione della coda di leone. Il nome deriva dal latino leo, a sua volta derivato dal greco. Un’etimologia più antica riconduce il termine ad un verbo, sempre greco, che significa “staccare”, “ferire” e ciò non può che lo spirito battagliero della Lancia. La fiammante criniera del leone rimanda i luminosi raggi solari, che ora sono forti e aggressivi come quest’animale. In tutte le religioni primitive il leone è un’incarnazione del Dio, della forza solare, dell’eroe-guerriero. Nei miti lo si ritrova però anche come immagine di violenza, di scatenamento degli istinti, domata poi dall’uomo spesso con l’aiuto della divinità (Ercole, la cui festa era il 12 Agosto, o Sansone…). Basti pensare, ad esempio, all’iconografia (ma anche al significato) della carta della Forza dei Tarocchi. Nonostante il leone non sia un animale tipico delle zone nordiche e dell’Europa continentale, esso può essere facilmente associabile a Lugh, poiché uno dei suoi nomi (Llaw Llew Gyffes) significa appunto “leone dalla mano ferma”.
Il Fuoco del Leone è la luce solare, energia allo stato puro. Lasciamoci riempire dalla sua forza, dalla sua espansività, e riceviamo i doni che ci elargisce, ma impariamo anche a controllare e domare questo potere, ad immagazzinarlo e trasformarlo a nostro vantaggio, senza lasciarlo bruciare in modo vano e distruttivo.


Il Calendario Arboreo Celtico: la Quercia

Nel calendario arboreo di Graves, la Quercia (D, duir) è la pianta associata al periodo che va da giugno ad agosto. Il suo nome gaelico Duir o Dair, oltre che “quercia”, significa anche “porta”, e questo in molte lingue europee: l’antico goidelico dorus, il latino foris, il greco thura, il tedesco Tür (tutti derivati dal termine sanscrito dvr), e la lettera ebraica D, daleth (in origine c’era una r al posto della l). Il simbolismo della quercia come soglia è evidente nel momento in cui la si associa a Lughnasadh. Si tratta della “porta” dell’AltroMondo, di cui Epona possiede la chiave, attraverso la quale viaggiano i cavalli di Rhiannon e Manannan e altre la quale si trovano gli Antenati commemorati durante questa festività.
Per i Celti la quercia è sacra alla Dea, a Taransi, ed è associata ai fulmini, così come al Dagda irlandese, la cui mazza era in legno di quercia, un’arma in grado di “dare la vita ai morti e la morte ai vivi” (chiaro riferimento ai due lati della porta, che ci ricorda gli uccelli di Rhiannon, che “addormentano i vivi e risvegliano i morti”). In passato si credeva che la ghianda di questa pianta fosse in grado di proteggere dal fulmine, e che tenerla in casa avrebbe tenuto lontano tale pericolo (ecco perché ancora oggi troviamo nelle case alpine diverse decorazioni a forma di ghianda di quercia sulle finestre e sulle loro ante, oltre che sulle colonnette principali di balconi e scale.
Frazer, nel suo Il Ramo d’Oro, ci fornisce diverse informazioni sulla quercia, e sul culto delle divinità associate.
Il culto della quercia, o del suo dio sembra fosse condiviso da tutte le stirpi ariane in Europa. Greci e Italici associavano l’albero alla loro massima divinità, Zeus o Giove, dio del cielo, della pioggia e del tuono. Il tuono era infatti considerato il “sommo presagio”, che annullava o confermava tutti gli altri, perché emanazione di queste divinità. Il nome Zeus deriva dalla radice indoeuropea che significa “brillare” e indica il lampo. La folgore di Zeus è direttamente associabile alla Lancia di Lugh, e la “battaglia” tanto invocata in questo periodo, non è altro che il Temporale. Forse il più antico, e certo più famoso, santuario della Grecia era quello di Dodona, dove Zeus era venerato nella quercia profetica. I temporali che, si dice, infuriano a Dodona più che in qualsiasi altro luogo d’Europa, facevano di quella località la dimora ideale per un dio, la cui voce risuonava tanto nel fruscio delle fronde di quercia, quanto nel fragore del tuono.
Ogni quercia dell'antico suolo italico era dedicata a Giove; e a Roma, sul Campidoglio, era venerato come dio non solo delle querce, ma anche della pioggia del tuono.
Anche a Creta ci fu un dio, predecessore di Zeus, colui che un tardo glossatore chiama “Velkhanos, Zeus presso i Cretesi”. Questo Velkhanos è identico a Volcanus, uno dei più antichi déi latini, precedente persino a Giove. Questo “primo Giove di Roma” era un dio del fulmine e degli incendi, dei quali poteva impedire le devastazioni.
Passando dall’Europa meridionale a quella centrale ritroviamo il grande dio delle querce e del tuono. Fra i Celti della Gallia, le piante più sacre in assoluto erano il vischio e le grandi querce su cui esso cresceva; e nei boschi di querce essi celebravano le loro solenni funzioni, dove le fronde di quercia erano sempre presenti. “I Celti”, afferma uno scrittore greco, “venerano Zeus, raffigurandolo come una quercia alta e maestosa”. Si pensa persino che il significato stesso della parola Druido possa essere “uomo delle querce”.

Anche nella religione degli antichi Germani la venerazione per i boschi sacri occupava un ruolo centrale, e, secondo i Grimm, l’albero sacro per eccellenza era la quercia, dedicata particolarmente al dio del tuono Donar, o Thunar, equivalente al Thor dei norvegesi. Che il teutonico dio Donar, Thunar o Thor, si identificasse con l’italico dio del tuono Giove, risulta dal vocabolo inglese Thursday, Thunar’s day, il giorno di Thunar, che è il nostro Giovedì, il giorno di Giove. Fra gli antichi Teutoni, come fra i Greci e gli Italici, il dio della quercia era anche dio del tuono; considerato come la grande forza fertilizzatrice che mandava la pioggia, e faceva si che la terra desse frutti. Donar, scrive Adamo di Brema in Descriptio Insularum Aquilonis, “regnava nell’aere ed era il signore del tuono e del lampo, del vento della pioggia, del bel tempo e dei raccolti”. In altri termini, questo dio del fenomeni atmosferici rivestiva una funzione analoga a quella di Zeus-Giove.
Anche fra gli Slavi la quercia era l’albero sacro a Perun, dio del tuono. Si dice che a Novgorod esistesse un’immagine di Perun in sembianze di uomo con una folgore in mano; giorno e notte ardeva in suo onore un fuoco di legno di quercia; e se mai il suo fuoco si spegneva i suoi custodi pagavano con la vita la loro negligenza. Sembra che, come Zeus e Giove, anche Perun fosse la principale divinità del suo popolo; n arra infatti Procopio che gli Slavi “credono che un solo dio, artefice del fulmine, sia l’unico signore di tutte le cose; e gli offrono in sacrificio buoi e vittime di ogni genere”.

Lo stesso valeva per Perkunas, il cui nome deriva da quello della quercia in indoeuropeo antico. A questo dio del tuono, divinità principale dei Lituani, erano naturalmente consacrate le querce, e quando i cristiani le tagliarono, la gente protestò vivacemente per la distruzione delle loro divinità silvana. Anche ad egli erano dedicati e tenuti accesi dei fuochi perpetui, alimentati solo con il legno di determinate querce. I Lettoni vicini dei Lituani, veneravano anche la “Quercia D’Oro” di Perkun, dio della folgore.

A nord della Lituania, presso gli Estoni, che a differenza dei Lituani e dei Lettoni non sono un popolo indoeuropeo ma ugrofinnico, le querce erano venerate anche in quanto appartenenti a Taara, dio del tuono e divinità suprema detto dagli Estoni il “Vecchio Padre” o il “Padre del Cielo”. Il nome di questa divinità non può che ricordarci Taranis, che per i Celti è il Signore del Fuoco Celeste, legato al potere del cielo che si manifesta nel rombo della battaglia e in quello dei tuoni e delle nubi che portano fertilità con la pioggia. Non è quindi solo il nome ad avere una particolare assonanza con il dio estone. In un manoscritto risalente probabilmente al IX secolo d.C. un commentatore anonimo associa Taranis a Giove e lo definisce praeses bellorum, “dio della guerra”. Il suo nome, che significa “tuonante” (dal gallese tarann, “tuono”, in gaelico torann, considerato dai Celti la “Voce Divina”, “il Potere dei Cieli”), potrebbe indicare la venerazione dei Celti per il rumore, per il rombo del tuono, e ritenere Taranis un dio “rumoroso” e rimbombante, associato al fulmine e alla tempesta. I suoi simboli sono la ruota (che, tra l’altro, ci ricorda la sua natura solare), la mazza o la clava (associabile alla lancia, quindi alla folgore), la quercia, il bue e il triskele. Egli è probabilmente quel Dispater da cui i Celti dicevano di discendere e che Cesare erroneamente associa a Plutone, ma che potrebbe tranquillamente essere Giove (Deus Pater). In effetti J.-B. Bullet scrive:“I Celti si dicevano nati da Dite [..] Cesare, saturo della propria religione romana, nella quale Plutone è chiamato Dis-Ditis, ha creduto che i Celti si ritenessero discendenti di Plutone, divinità che gli era ancora sconosciuta. I nostri viaggiatori cadono sempre in errori del genere. Essi rapportano ai nostri costumi, alle nostre usanze, alla nostra religione tutto ciò che vedono, tutto ciò che sentono nei paesi stranieri, che può avere una certa somiglianza” e probabilmente la sua affermazione è ancora oggi valida. Ma questo Dis Pater è stato anche assimilato ad Apollo, il Belenos celtico. Tale associazione trova riscontro nel fatto che i Celti, come abbiamo già detto, si consideravano “figli del Sole” e chiamavano se stessi Kealteach, che significa appunto “appartenenti al Cielo”.

Belenos è un dio molto importante nella tradizione celtica che, come dicevamo, pare corrispondere all’Apollo classico. Sia in Irlanda che in Britannia e nelle Gallie è conosciuto anche con i nomi di Bel, Beli, Belinos e Bìle (che in gaelico significa “grande albero sacro”, definito “Padre degli dèi e degli uomini” e marito della dea Dana), la cui radice ha il significato di “brillante” (lo stesso, quindi, di zeus). Belenos è un dio della medicina con attributi solari e come a tutti gli dei celtici con tali caratteristiche anche ad egli venivano dedicate figurine di cavalli. Si trova un suo soprannome in Artepomaros (“colui che possiede un grande cavallo”). Secondo Taraglio potrebbe corrispondere al Lugh irlandese.

Note: Testo di Jlandra.
Vietata qualsiasi riproduzione senza il consenso dell'autrice.

1 Secondo una tradizione più o meno universale, si suppone che il cavallo, creatura di fuoco e di terra, esca dalle viscere della Terra. Il suo galoppo, che fa risonare il suolo, ricorda il rombo dei terremoti, ma anche dei tuoni e dei temporali.

2 Il racconto del ciclo arturiano narra del colpo accidentalmente sferrato da Balin, che ferì il Re del Graal, Pelles, causando la devastazione della Terra.

3 Il Caduceo è una delle “incarnazioni” dei quattro manufatti sacri che si ritrovano non solo tra i Celti, ma in moltissime altre culture, che sono ben rappresentati dai quattro semi dei tarocchi: stiamo parlando del bastone. Lo troviamo sotto mille aspetti: la Scopa, la Lancia, la Mazza, la Bacchetta Magica, il Sacro Rovo, ognuno con suo significato, con i suoi miti, ma in definitiva si tratta dello stesso oggetto-simbolo. Così la Lancia di Lugh, in mano a Rosmerta, Signora della Rinascita, si tramuta nel Caduceo appartenuto prima ad Apollo e poi a Mercurio, entrambi associabili a Lugh stesso.
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Re: X LA LANCIA (Punti: 1)
da fairymoon 07 Ago 2009 - 13:50
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un lavoro splendido come sempre ricco di passione e di notizie, grazie!






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