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Ynis Afallach Tuath

IL PROBLEMA LINGUISTICO INDOEUROPEO E LE RADICI MATRIARCALI
Sabato, 07 Maggio 2011 - 10:49 - 4053 Letture
Come tutti più o meno sappiamo, o constatiamo, le lingue che si parlano in Europa sono tutte (con in realtà qualche eccezione, anche se piccola) sorelle, o perlomeno cugine.
Le lingue scandinave, ad esempio, nonché il tedesco, l’olandese e l’inglese, hanno similitudini macroscopiche: tutti sanno che derivano da una lingua “germanica” più o meno unitaria.

Se ci spostiamo nell’area celtica troveremo popoli che parlano lingue sorelle fra loro in Irlanda, in qualche posticino del Galles, in Scozia e in Bretagna: è quel poco che resta di un universo linguistico che comprendeva tutte le isole che oggi chiamiamo Britanniche, la Gallia, una zona dell’attuale Spagna, l’Italia Settentrionale (cioè, sempre la Gallia….), ma anche ampie zone della Germania occidentale e del Sud. Fin qui, niente di nuovo; e il discorso potrebbe ripetersi per altre regioni linguistiche: illirica, tracia, greca e così via.
Ma il fenomeno si presenta anche fuori dall’Europa: in Persia si trova una lingua presente anche, non troppo differente, nel Kashmir e nella Valle del Gange. Ma esistettero anche Sciti, Sarmati e Alani, popoli oggi dimenticati, che parlavano più o meno sempre una lingua molto simile; e gli Osseti, nel Caucaso, sono lì ancora oggi.
Ecco, fu proprio questo fatto che colpì qualche studioso: vi erano parole indiane che erano stranamente simili ad altre latine, o greche, o tedesche.
Troppo simili. La filologia di tanto tempo fa si accorse così che Sanscrito e Latino erano troppo simili per non essere parenti; ma lo stesso valeva per le lingue germaniche e quelle celtiche; o addirittura per lingue apparentemente tanto diverse quanto l’albanese da una parte e lettone e lituano dall’altra.

Finalmente, nel 1833, un oggi sconosciuto e dimenticato Franz Bopp pubblicava una “Grammatica comparata della lingua Sanscrita, Avestica, Greca, Latina, Lituana, Gotica e Tedesca”.
La scoperta era stata controllata e acclarata dalla scienza filologica: dall’Islanda all’India si parlavano e in gran parte si parlano ancora, delle lingue con delle somiglianze talmente profonde, da dover per forza di cose indurre a pensare a una qualche sorta di origine comune; e poiché queste lingue si trovano tanto in India quanto in Europa, ecco nato il termine “indoeuropeo”.

Anche noi sceglieremo un esempio: lo fanno a questo punto tutti i testi esistenti, che normalmente propongono la parola “Padre”.
Noi sceglieremo, per amore di varietà, un’altra parola.

Ecco che “Madre”, ad esempio, in Sanscrito si dice “matà”, in persiano “matar”, in tedesco antico (Alto) “muoter”, in Lettone “maata”, in Latino “Mater”, in Greco “meter” (e in dorico “mater”), in gaelico “mathir”.

Questo esempio, che potrebbe continuare per un intero vocabolario, e non è che uno tra migliaia, condusse i filologi a stabilire con certezza che questa macroscopica parentela deve presupporre la derivazione di tutte queste lingue da un’unica lingua originaria. Fin qui tutto semplice. Il problema si complicò e di molto, ed è tutt’ora molto complicato, quando accanto alla indubitabile “lingua originaria” si vollero cercare una eventuale popolazione originaria che avesse parlato tale lingua e con essa una patria originaria dove tale popolazione risiedesse.

Molti studiosi hanno esaminato tale problema negli ultimi duecento anni, e anche solo elencare le risposte che sono state date, risposte spesso molto articolate, comporterebbe la compilazione di un volume di uno spessore ragguardevole. Non è questa la sede per fare ciò: troppo lontano saremmo condotti rispetto all’argomento che vorremmo trattare.
Restringendoci al campo di quanto è più o meno condiviso diremo, in estrema sintesi e dunque semplificando molto, che dette lingue indoeuropee presero forma in qualche epoca durante il terzo millennio avanti Cristo; che una comunità culturale di un certo numero di stirpi in un’area fino a un certo punto delimitabile, preluse a una dispersione, piuttosto veloce, verso punti lontanissimi fra loro. Ciò può rappresentare sia moltissimo, sia pochissimo; e non scioglie l’interrogativo che tutti dovettero porsi: “In conclusione, chi erano gli Indoeuropei? Ed eventualmente, chi sono?”.

Prendiamo come esempio l’ “Italia”: nell’Italia antica sono presenti lingue estremamente affini ma diversificate come il latino, naturalmente, il falisco (scomparso più o meno durante il II secolo avanti Cristo), il veneto, l’osco, l’umbro (già residuale nel V secolo a.C.), ma anche la lingua degli Ausoni e dei Siculi, e inoltre, nell’ “Italia padana”, non saranno mancati dialetti intermedi tra latino e veneto. Queste lingue, generalmente dette italiche, sono strettamente imparentate fra loro e pienamente appartenenti alla famiglia Indoeuropea. Come mai, in Italia, dal Piemonte alla Sicilia, troviamo tali lingue simili?
Possiamo soltanto dire che in “Italia”, a partire da qualche momento poco prima o poco dopo il II millennio a.C., l’archeologia registra l’inizio dell’arrivo da Nord di un certo numero di popolazioni, con un processo che sarebbe durato circa un millennio. Questi popoli, stanziatisi in diversi luoghi della penisola, diversi fra loro, e parlanti lingue verosimilmente differenziate, erano provvisti anche di un certo numero di caratteristiche culturali, religiose e sociali, simili. Sono forse gli Indoeuropei che giungono in Italia? Accontentiamoci di dire che parlavano lingue Indoeuropee e che dunque “dovrebbero” essere gli Indoeuropei, che nel frattempo viaggiavano anche verso la “Francia”, la “Grecia”, le “Isole Britanniche”, la “Persia”, l’ “India”.

Quel che è certo è che il latino, e dunque l’italiano che ci interessa per il nostro percorso etimologico, è una lingua genuinamente indoeuropea.

Dire quindi, se coloro che portarono in Italia, o altrove, le lingue indoeuropee erano anche “gli” Indoeuropei, è più complesso, certo non automatico.

Di certo ancora, si nota che le civiltà italiche dei popoli che parlavano lingue indoeuropee presentano un numero di caratteristiche sociali, religiose e culturali “tipiche”, ben precise e ben individuate. Infine aggiungeremo che per gli studiosi di queste evenienze Roma antica rappresenta un serbatoio preziosissimo, essendo stata una civiltà estremamente conservatrice, specie in campo religioso e fino a un certo punto sociale, in grado pertanto di sciogliere non pochi dubbi su taluni aspetti indoeuropei altrove difficilmente studiabili.

Ma noi, noi italiani di oggi, siamo indoeuropei? Non è possibile dare una risposta, è possibile piuttosto dare una opinione, e non mancano le più diverse: possiamo dire con certezza che parliamo una lingua indoeuropea. Da ciò deriva almeno che ci esprimiamo secondo un sistema che non sarà per forza di cose soltanto linguisticamente indoeuropeo ma, almeno fino a un certo punto, pensiamo, o almeno abbiamo pensato, “all’indoeuropea”. Se poi la curiosa persona che ogni giorno ci osserva dagli specchi di casa nostra sia indoeuropea, questo, è piuttosto difficile dirlo: sia per affermarlo, sia per negarlo. Per approssimarsi alla realtà possiamo tuttavia fare un esempio.

Tutti sappiamo che gli Anglosassoni che ancora nel 400 d.C. abitavano la Germania Settentrionale, siano poi migrati in Inghilterra: è un fatto noto. Sappiamo che da lì sono poi, tempo dopo, emigrati ancora: ad esempio in America, o in Australia. E’ facile verificare e noto a tutti che i discendenti di quegli Anglosassoni rimasti in Germania si assomigliano, e come gocce d’acqua, ai loro cugini di Londra ma anche a quelli di New York; e parlano lingue molto molto simili. Ciò farebbe sembrare tutto molto semplice, ma abbiamo voluto scegliere l’esempio degli Anglosassoni proprio perché se ci si reca nella citata New York, ci si accorge che almeno uno su quattro degli abitanti, sebbene parli indiscutibilmente una lingua germanica schiettissima come l’inglese moderno, presenta nondimeno una caratteristica che salta immediatamente agli occhi: una caratteristica diciamo così “cromatica” di tutto rilievo. E nessuno penserà certo che quel 25 per cento di neri che abita a New York e parla e pensa con una lingua germanica, sia di ceppo anglosassone.
Questo esempio macroscopico bene serve a interrogarsi sul fatto che parlare una lingua indoeuropea non autorizza immediatamente a definire chi lo fa come indoeuropeo!

Non sappiamo bene chi siano gli Indoeuropei, ma sappiamo benissimo che i Neri di Harlem non lo sono di certo.
Tuttavia, al contrario, sebbene noi sappiamo benissimo perché un “nero di Halrem parla germanico”, poiché conosciamo i fatti, o misfatti, storici che hanno consentito che ciò accadesse, non sappiamo nulla dei fatti che accaddero ad esempio in Italia durante il II millennio a.C., o in Grecia, o in Persia. Tuttavia, e per finire, potremmo presumere che le condizioni di organizzazione sociale dell’Europa preistorica non potessero consentire fenomeni come quello che ha privato i neri d’America della loro lingua e gliene ha imposta un’altra diversissima. Potremmo, ma non assolutamente possiamo; e il problema resta aperto.
In conclusione potremo utilizzare quanto l’archeologia, o la letteratura, o la storia delle religioni, o quella delle strutture sociali, ci dicono delle civiltà antiche che parlavano lingue indoeuropee.
Potremo cercare di evidenziare i caratteri comuni dalla Germania all’India, per ritenerli caratteri comuni indoeuropei, scartando per contro ciò che in dette civiltà appare diverso, e ritenerlo non indoeuropeo.

Un esempio: nelle lingue indoeuropee, insieme con tante parole comuni, ve ne sono di quelle che comuni non sono, e dunque dotate di una certa eloquenza.
I greci chiamarono il leone “leon” (un tempo in Grecia c’erano i leoni), gli armeni dicevano “inj”, e in sanscrito si diceva “simba”. Se ne può dedurre che una parola indoeuropea per dire “leone” semplicemente non c’è. Se dunque nel più remoto “mondo” indoeuropeo i leoni erano sconosciuti, con ogni probabilità bisogna cercare le origini indoeuropee in un luogo dove non ci fossero leoni. Un esempio semplice per dare ragione della complessità, e delle difficoltà, di tali problemi.

Al di là di tutti questi problemi teorici, resta il fatto che interessarsi di etimologia significa per lo più interessarsi di un sistema linguistico, e dunque mentale, e penso potremmo dire anche spirituale, indoeuropeo.

Che importanza riveste questo fatto? Notevole.
Infatti, uno dei cardini della civiltà e della religiosità indoeuropea è il patriarcato. Patriarcato come struttura sociale, patriarcato come struttura del sacro, patriarcato come sistema linguistico: non sembri semplicistico, ma è proprio perché parliamo “indoeuropeo”, o meglio, un tardo dialetto indoeuropeo, che nei nostri vocabolari i termini si cercano al maschile.

Bene, nello studio etimologico non si potrà dimenticare quindi che i significati di base di ciò che si esamina sono indoeuropei, ed è necessario studiarli, per comprenderli, all’interno del loro sistema. Ma questo è solo un aspetto del percorso che ci si propone.
L’universo indoeuropeo, come sappiamo, non è tutto il nostro universo spirituale e culturale. Una cultura, anzi un insieme di culture diverse, precedenti, sono esistite ed hanno interagito con il mondo indoeuropeo.
Di questo mondo non ci resta la lingua, non ci resta il modo di esprimersi verbale: ma non per questo non ci resta molto di quel mondo. Ci resta nelle pieghe della religione e del folklore, delle abitudini e forse più semplicemente dell’anima. Da un punto di vista etimologico, questo mondo e questi concetti, sono da millenni espressi in un’altra lingua, quella “indoeuropea”, e a noi giungono, per dir così “tradotti”. Ecco dunque che la ricerca etimologica se non dovrà lasciarsi andare all’emozione ma restare scientifica e attenta al fatto che il sistema è indoeuropeo, potrà e dovrà considerare che certamente, in quella lingua saranno espressi anche concetti che indoeuropei non sono, e provengono da un altro universo, forse più lontano, forse più originario, che ha perso forse la sua lingua, ma non la sua anima.

Su questo punto sarà forse utile spendere un' ultima parola sugli Indoeuropei e le altre civiltà: quelle che nel complesso, seppur con varie terminologie, sono state dette matriarcali, quanto quelle indoeuropee sono state dette patriarcali.
Dovunque siano fisicamente giunti gli Indoeuropei si sono imposti con la forza, anche soltanto fisica. Dovunque hanno portato la propria religione e la propria lingua e il proprio sistema sociale. Fu un processo stupefacente: non è forse stupefacente che lo storico della religione romana antica abbia come migliore strumento per comprendere aspetti che gli sfuggono, la religione indù? Tale fu la forza dell’egemonia culturale degli Indoeuropei. Tuttavia gli Indoeuropei non colonizzarono pressoché mai luoghi deserti. Dopo la vittoria in battaglia, le civiltà sconfitte non poterono che sedersi a tavola con i vincitori, conoscersi, amarsi, fare delle nuove famiglie: ricevere e dare. In ogni civiltà indoeuropea c’è sempre qualcosa d’altro, che noi tenteremo di ritrovare all’interno di un vocabolo indoeuropeo.

Un esempio: tutti sanno come la passione di Obelix sia quella di collezionare gli elmetti dei legionari romani che ha suonato. Questa è la versione ingentilita del fatto che i Celti, indoeuropeicissimi tra gli indoeuropei, amavano tagliare, portare a casa e mettersi in salotto, le teste dei nemici sconfitti in battaglia.
Questo uso della più remota e inimmaginabile antichità, non è certo indoeuropeo, anzi è quanto di meno indoeuropeo si possa immaginare. Tuttavia è rimasta una delle più note peculiarità celtiche…..si può dunque essere ottimisti. Rosmunda forse non fu costretta a bere davvero nel cranio del padre Cunimondo dal marito re dei Longobardi. Tuttavia questa leggenda è talmente curiosa da far pensare che, così stramba, forse è proprio vera. Così, persino i “super”indoeuropei e germanici Longobardi, in un momento critico, dovettero fare i conti con profondità del loro animo tutt’altro che indoeuropee.

Infine, nell’ 800, determinati studiosi tentarono delle sistematizzazioni dello studio dei mondi indoeuropeo e preindoeuropeo. Nacque da questi studi la contrapposizione tra indoeuropei patriarcali e matriarcato. Tale contrapposizione non fu tuttavia così schematica ed assoluta. Certo vi fu invece un processo dinamico di amalgama. Certo gli “indoeuropei” diedero la nota dominante a tutto o quasi tutto, ma accolsero in sé stessi anche l’altro universo. In questo amalgama tenteremo di orientarci.

Noi sappiamo che quei semi amano particolarmente ciò che è profondo. E non è proprio di ciò che è materno dar vita dalla profondità di sé stessa a un seme che vi sia deposto?

Note: di Alessandro
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