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Ynis Afallach Tuath

LA RELIGIONE E LE DIVINITA' DEI GALLI
Venerdì, 22 Febbraio 2008 - 18:26 - 18364 Letture
Celti De bello gallico


Liber VI 16
Libro VI 16

[16] Natio est omnis Gallorum admodum dedita religionibus, atque ob eam causam, qui sunt adfecti gravioribus morbis quiquein proeliis periculisque versantur, aut pro victimis homines immolant aut se immolaturos vovent administrisque ad ea sacrificia druidibus utuntur, quod, pro vita hominis nisi hominis vita reddatur, non posse deorum immortalium numen placari arbitrantur, publiceque eiusdem generis habent instituta sacrificia. Alii immani magnitudine simulacra habent, quorum contexta viminibus membra vivis hominibus complent; quibus succensis circumventi flamma exanimantur homines. Supplicia eorum qui in furto aut in latrocinio aut aliqua noxia sint comprehensi gratiora dis immortalibus esse arbitrantur; sed, ***** eius generis copia defecit, etiam ad innocentium supplicia descendunt.


[16] Il popolo dei Galli, nel suo complesso, è oltremodo religioso. Per tale motivo, chi è afflitto da malattie di una certa gravità e chi rischia la vita in battaglia o è esposto ai pericoli, immola o fa voto di immolare vittime umane e si vale dei druidi come ministri dei sacrifici. Ritengono, infatti, che gli dèi immortali non possano venir placati, se non si offre la vita di un uomo in cambio della vita di un altro uomo. Celebrano anche istituzionalmente sacrifici di tal genere. Alcuni popoli hanno figure umane di enormi dimensioni, di vimini intrecciati, che vengono riempite di uomini ancor vivi: si appicca il fuoco e le persone prigioniere lì dentro, avvolte dalle fiamme, muoiono. Credono che agli dèi immortali sia più gradito, tra tutti, il supplizio di chi è stato sorpreso a commettere furti, ladrocini o altri delitti, ma quando mancano vittime di questo tipo, ricorrono anche al sacrificio degli innocenti.


Nei capitoli 16 e 17 e all’inizio del 18o del VI libro,
Cesare concentra la sua attenzione sulla religione dei Galli,
data l’importanza che essa riveste nella vita pubblica e privata.
Egli si sofferma in primo luogo sulla pratica gallica
dei sacrifici umani nei confronti della quale manifesta,
attraverso un ricorso insolitamente ampio a figure retoriche
pur sotto l’apparenza di una narrazione oggettiva e distaccata,
un giudizio chiaramente negativo:
si veda per esempio l’ossimoro vita-morte (vivis hominibus…….examinantur VI ,4)
attorno al quale ruota l’intero brano, e soprattutto,
si noti l’osservazione finale del cap. 16 (etiam ad innocentium supplicia descendunt),
in cui si esprime il disgusto per una pratica che pare ridurre gli uomini ad animali.
La pratica dei sacrifici umani è considerata arcaica
e ormai cancellata dalla memoria storica del popolo romano
ma non è ad esso estranea, come è documentato dalle fonti.

Secondo quanto affermano Plutarco (Vita di Marcello 3)
e Tito Livio (Ab urbe condita XXII 57, 2-6)
i Romani stessi, avevano fatto ricorso a sacrifici umani
in due momenti particolarmente drammatici della seconda metà del III sec. a.C.:
in occasione dell’incursione dei Galli Insubri e dei Gesati contro Roma,
appena uscita dalla prima guerra punica
(241 a. C. e durante una grave crisi dopo la sconfitta di Canne (216 a. C.).
in tali occasioni si cercò di placare l’ira degli dei attraverso il sacrificio di stranieri,
(nel primo episodio un uomo e una donna ellenici,
nel secondo un uomo e una donna gallici),
seppelliti vivi nel foro Boario.

Plutarco e Livio si sforzano di spiegare con il metus Gallicus e con il metus Poenicus,
cioè il terrore verso i Galli e verso i Cartaginesi,
il ricorso a queste pratiche che,
furono comunque ben presto abbandonate
a favore di una religiosità di più elevata spiritualità


LE DIVINITA' DEI GALLI


Liber VI 17
Libro VI 17

[17] Deum maxime Mercurium colunt. Huius sunt plurima simulacra: hunc omnium inventorem artium ferunt, hunc viarum atque itinerum ducem, hunc ad quaestus pecuniae mercaturasque habere vim maximam arbitrantur. Post hunc Apollinem et Martem et Iovem et Minervam. De his eandem fere, quam reliquae gentes, habent opinionem: Apollinem morbos depellere, Minervam operum atque artificiorum initia tradere, Iovem imperium caelestium tenere, Martem bella regere. Huic, ***** proelio dimicare constituerunt, ea quae bello ceperint plerumque devovent: ***** superaverunt, animalia capta immolant reliquasque res in unum locum conferunt. Multis in civitatibus harum rerum exstructos tumulos locis consecratis conspicari licet; neque saepe accidit, ut neglecta quispiam religione aut capta apud se occultare aut posita tollere auderet, gravissimumque ei rei supplicium ***** cruciatu constitutum est.


[17] Il dio più venerato è Mercurio: ne hanno moltissimi simulacri. Lo ritengono inventore di tutte le arti, guida delle vie e dei viaggi, credono che, più di ogni altro, abbia il potere di favorire i guadagni e i commerci. Dopo di lui adorano Apollo, Marte, Giove e Minerva. Su tutti questi dèi la pensano, all'incirca, come le altre genti: Apollo guarisce le malattie, Minerva insegna i principi dei lavori manuali, Giove è il re degli dèi, Marte governa le guerre. A quest'ultimo, in genere, quando decidono di combattere, offrono in voto il bottino di guerra: in caso di vittoria, immolano gli animali catturati e ammassano il resto in un unico luogo. Nei territori di molti popoli è possibile vedere, in zone consacrate, tumuli costruiti con tali spoglie. E ben di rado accade che uno, sfidando il voto religioso, osi nascondere a casa sua il bottino o sottrarre qualcosa dai tumuli: per una colpa del genere è prevista una morte terribile tra le torture.


Liber VI 18
Libro VI 18

[18] Galli se omnes ab Dite patre prognatos praedicant idque ab druidibus proditum dicunt


[18] I Galli affermano di discendere tutti dal padre Dite, e dicono che ciò è stato tramandato dai druidi


Le informazioni sul pantheon (cioè il complesso delle divinità) celtico
sono piuttosto confuse e limitate a causa della mancanza di documenti scritti.
Si sa, comunque, che i Celti veneravano con culti diversi
a seconda dei gruppi sociali, numerose divinità.
La testimonianza più antica sulle divinità celtiche ci è data proprio da Cesare che,
secondo il procedimento tipico della forma mentis romana
(la cosiddetta interpretatio Romana),
le assimila agli dei del pantheon di Roma,
evidenziando esclusivamente i punti comuni.
I Romani, infatti, erano convinti che le divinità delle religioni straniere
fossero affini alle loro pur avendo nomi differenti.
Cesare ricorda, quindi, Mercurio, “protettore dei viaggi e dei commerci”;
Apollo “che scaccia le malattie”;
Minerva “che trasmette i principi delle arti”,
Giove che “regna sui cieli”;
Marte dio della guerra.
Ma quali dei celtici si nascondono sotto i nomi romani?

Prima ipotesi

Alcuni studiosi sulla base di un confronto tra il testo di Cesare
e un breve testo di Lucano (Bellum civile I vv.445-446)
in cui sono nominati tre dei gallici ( Teutates, Esus, Taranis)
a cui venivano offerti sacrifici umani, hanno creduto di identificare :

• Mercurio con Teutates (dio delle arti, delle strade, dei viaggi)

• • Marte con Esus (dio della guerra)

• • Giove con Taranis (dio del tuono- in gallico taran)

Ci sarebbe inoltre corrispondenza tra

• Apollo e Belenus (dio del sole)

• • Minerva e Belisama

Seconda ipotesi

Altri studiosi hanno identificato
• Mercurio con Lugh, “il Luminoso”,
il gran dio polivalente di cui si parla nei testi irlandesi

• Per quanto riguarda Teutates,
è stato osservato che il nome appartiene
alla stessa radice della parola celtica teuta che designava la tribù.
Egli sarebbe, quindi, il dio che guidava e proteggeva la tribù in guerra
e potrebbe essere identificato con Marte

Nel capitolo 18 Cesare menziona un Dis pater (padre Dite)
da cui i Galli dicevano di discendere.
Il fatto che Cesare assimili questa divinità al dio romano dei morti Dite,
ha portato alcuni studiosi ad avanzare l’ipotesi di una connessione tra Dis
e un dio dell’oltretomba che compare nella tradizione irlandese: Donn, lo Scuro.
Altri studiosi identificano,
invece, il Dis di cesare con il dio gallico Cernunnos, dio con le corna di cervo,
che emerge periodicamente dal mondo sotterraneo delle tenebre
per diventare dio della vegetazione e della primavera (cioè Esus)
e ricongiungersi con la Terra, la dea Madre.
Questo mito spiegherebbe l’uso celtico di misurare il tempo
in base alle notti anziché ai giorni

Esiste una sola figurazione del Dio Cervo accompagnata da un'iscrizione.
È il Pilastro dei Naviganti di Parigi,
trovato sotto il coro della cattedrale di Nôtre-Dame nel 1711.
Qui, in uno dei riquadri ritroviamo il Dio Cervo vestito con una tunica senza maniche
che lascia nuda la spalla destra e un torques al collo; la testa, calva e con la fronte corrucciata,
ha orecchie e corna di cervo oltre alle normali orecchie umane.
Ad ogni corno è appeso un torques


-Dora-
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