Ynis Afallach Tuath

Le feste dei serpenti in Abruzzo

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Inviato da Argante 29 Mag 2010 - 10:43

impressioni e riflessioni di una viandante-pellegrina del mondo.

Nel cuore dell’Italia si vivono ancora esperienze di profondo collegamento con i riti ancestrali delle nostre Antiche Genti, in particolare in Abruzzo, regione ricchissima di spiritualità e di ritualità divine.

Come pellegrina del mondo sono approdata, grazie all’invito di una cara amica, Luciana Percovich, a questa terra e in particolare ai piedi della grande montagna chiamata Maiella. Si racconta che la dea Maia arrivò dall’Oriente con il suo amatissimo figlio che venne ucciso. Per restargli per sempre vicina ella si trasformò nella montagna dolce e materna che si può ancor vedere, mentre il figlio diventò il monte che la fiancheggia, il Gran Sasso. Il profilo del Gran Sasso è veramente particolare in quanto richiama senza dubbio il profilo di un volto che si staglia nel cielo azzurro e che continua digradando in un corpo disteso. La conformazione di questa montagna mostra un corpo quasi femminile, con materni seni sui quali si intrecciano le mani poggiate con indolente rilassamento così che gli è stato dato anche il nome di Bella Addormentata. Questa unione di maschile e femminile, di madre e di figlia/figlio non può che aprirci le porte della mitologia legata alla Grande Dea, figura centrale di tutte le culture spirituali antiche.

“L’iconografia più antica dell’eros, dell’energia vitale e della forza spirituale elevata a potere magico, è una corposissima donna divina, simbolo incarnato di tutti i processi creativi. La troviamo così rappresentata già trentamila anni prima di Cristo, nel Paleolitico superiore, che io preferisco chiamare Età della Roccia Madre perché le prime forme artistiche sono tutt’uno con il supporto di pietra, così come la psiche si sentiva partecipe del tutto femminile materno della creazione” (Luisella Veroli, Prima di Eva)

Le nostre antiche progenitrici ben si vedevano rappresentate dunque in questa terra-pietra abruzzese fertile e feconda che si distende in vallate cosparse di ulivi, agrumi, cereali e dove i boschi oscuri mantengono ancora intatti echi di magia. Basta una visita alla Grotta di Rapino per ritrovare questa magia: la cavità si estende nelle profondità della montagna e mi accoglie con una gocciolante umidità ricordandomi che sto entrando nell’utero fecondo della grande dea Terra.

Qui è stata ritrovata la piccola statuetta detta Venere di Rapino che rappresenta con semplice ma efficace verità le sembianze di una donna-dea dalle aperte braccia benedicenti. Il mantello drappeggiato intorno al corpo e il cappello di fattura frigia può ricordarci anche una sacerdotessa che forse nella sua preghiera accoglie tutte le preghiere nostre. Viene voglia di pregare nella Grotta, di stare in silenzio e meditare mentre le gocce d’acqua scandiscono un tempo che si è fermato e mi riportano a ciò che fu … echi di canti con voci femminili, forse striscianti presenze che mi ricordano il sacro accompagnatore della dea ctonia, il serpente.

Il serpente è infatti animale incontrastato e importantissimo nelle ritualità abruzzesi, ogni anno nel mese di maggio vi sono numerose celebrazioni che lo vedono protagonista, le più famose quelle di Pretorio e di Cucullo. Ed è là che Luciana, la mia guida dell’anima, ha deciso di portarmi affinché io possa sentire direttamente questo ancora profondo collegamento con gli antichi riti della Dea.

La prima festa, che si svolge la prima domenica di maggio, ci porta nel cuore della montagna abruzzese. Pretoro è un paesino minuscolo che sembra un presepe abbarbicato alla roccia e con forma triangolare, quasi a ricordarci subito che parliamo di una Trinità, di una Triade portatrice di ricordi antichi legati alla Dea e al suo consorte-figlio, Dea triforme poiché governatrice dei tre regni cosmici. Anche la data non è certo casuale poiché il passaggio del Calendimaggio o Beltane, come lo chiamavano le antiche genti celtiche, è un momento sacro di trasformazione: la dea diventa madre, la Natura si risveglia e la fecondità riprende il sopravvento dopo il lungo sterile inverno. La trasformazione è ben rappresentata dal serpente che perde la pelle dopo il sonno letargico, pelle che ha proprietà taumaturgiche e che si metteva intorno alle culle dei bambini per preservarli dalle malattie.

“E’ il guardiano della saggezza del mondo sotterraneo e della profezia. La caratteristica del serpente di liberarsi della sua vecchia pelle e quindi di rinnovarsi, era associata al cambio della luna nuova e al ciclo mestruale delle donne. Come la luna, il serpente era visto quale simbolo di luce e di buio; vive sia sotto che sopra la terra, in tane e cavità” (Miranda Gray, Luna Rossa).

Nella festa di Pretoro i serpenti, forse ancora assonnati dal letargo, vengono catturati nei giorni precedenti e tenuti nelle case di famiglie speciali chiamate Serpari. I Serpari si dicono discendenti dell’antica etnia dei Marsi, un popolo italico stanziatosi nella zona del lago Fucino. Il nome Marsi contiene la radice Mor che nella antica lingua celtica è sinonimo di Mare e radice di molti nomi di dee e di druidi compreso quello del grande Merlino detto Mori-genos "nato dal mare". Il mare ha un ruolo assai importante in tutte le concezioni tradizionali celtiche: attraverso il mare arrivano gli dei in Irlanda e attraverso il mare si va all'Altro Mondo. I Marsi furono popolo di grande dignità che non si adattò facilmente alla conquista di Roma dando vita ad una rivolta che però non ebbe buon esito. Piegati duramente dai romani essi mantennero intatte le loro tradizioni legate al culto ctonio tramandando l’usanza di creare una alleanza con i serpenti per i quali nutrivano un vero rispetto. Virgilio cita un “Umbro sacerdote incantatore” (Aeneid VII,750-756) e Plinio li chiama “dormitores serpentium” (Natur. Histor. XXV,5,11) riconoscendo loro quelle qualità di curatori del morso del serpente che ancor oggi li contraddistingue. I Serpari infatti ritengono di avere una immunità ereditaria che viene tramandata nella famiglia e che ne fa ancor oggi i sacerdoti di questo rito. Mi racconta un amico abruzzese che è stato iniziato a questo rito dallo zio, il quale sfuggendo al controllo di madri e zie incitava i suoi nipoti “… togliete i vestiti della festa, mettete i pantalonacci, andiamo a catturare i serpenti senza che nessuno se ne accorga …”. Diventa questo un momento di iniziazione per i bambini che imparano così a distinguere le serpi innocue (cervoni, bisce d’acqua) da quelle velenose (vipere).

I serpenti rimangono avvolti tranquillamente intorno al loro braccio e solo la massiccia partecipazione mediatica e di turisti che ormai accorrono in massa li disturba assai e può alle volte farli reagire con aggressività. I Serpari pongono i loro serpenti intorno al collo degli ignari turisti per una foto che verrà poi esibita a casa quale prova di coraggio, ma i serpenti non apprezzano … ne ho visti parecchi dimenarsi indignati per questo trattamento!

Tutto il piccolo paese brulica di Serpari e di serpenti essendo anche stato istituito un premio per il serpente più lungo che viene accuratamente misurato sul palco sovrastante la piazza. Chi si porta a casa la coppa mostra tutto il suo grande orgoglio così come orgogliosi sono i genitori coinvolti in un altro rito che ogni anno viene riproposto, quello de Lu Lòpe. Il bambino ultimo nato del paese simula di essere rapito da un gigantesco lupo e grazie all’intervento di S. Domenico viene riportato poi ai suoi disperati genitori. Questa rappresentazione si svolge nello scenario naturale delle vie del paese e del bosco, quasi ad esorcizzare una paura atavica della gente del posto che di certo avrà subito nei millenni numerosi confronti cruenti con i branchi di lupi che abitavano le montagne. Il bambino (quest’anno di nome Riccardo e di età due mesi e mezzo) viene tutto vestito di bianco con dei nastri rossi ai polsi e alle caviglie. I colori bianco e rosso ci rimandano al culto della Dea, come si può vedere anche nella magnifica chiesa di Collemaggio all’Aquila che contiene un magnifico labirinto, altro simbolo della trasformazione (la chiesa è ora purtroppo chiusa per i danni dell’ultimo terremoto). “Il labirinto di Collemaggio rappresenta il cuore dell’edificio sacro … è formato da sei enormi cerchi a fasce concentriche di marmo rosso e bianco, gli stessi colori che compaiono sulla facciata della Basilica e sono riferibili alla sposa di Salomone, paragonata nel Cantico dei Cantici al giglio e alla rosa. Tutto rimanda al culto di Iside, i cui colori, gli stessi della Luna, passarono dapprima alla sposa di Salomone e in seguito alla Madonna. Tale bicromia testimonia la doppia natura della realtà umana e universale,terrestre e celeste, visibile e invisibile, conscia e inconscia- di cui la Dea era mediatrice” (Elisa Ghiggini,Rosa Mistica).

La grande dea Angizia, signora dei serpenti (il suo nome viene forse da “anguis” serpente) e venerata dai Marsi era colei alla quale le donne votavano la prole per averne protezione, una dea Pelagica venerata anche più tardi come Bona Dea. Ella ci collega al culto del serpente che in tutto il mondo viene rappresentato su vasi, pitture murali, sculture, tombe, pettorali, arnesi rituali ed è catalogato dalla studiosa Marija Gimbutas nel suo libro “Il linguaggio della dea” come simbolo di Energia e Sviluppo.

”I simboli di energia e sviluppo corrispondono a una visione più astratta, più spirituale del nascere e del morire. In questo caso il simbolo associato alla Dea come principio creativo, l’energia creativa per eccellenza, è la spirale, la cui diffusione è universale. La spirale, il serpente della Kundalini è la forma base del cosmo, perché galassie, nebulose, ecc., sono tutte a forma di spirale, come il DNA” (Luciana Percovich, Oscure Madri Splendenti, le radici del sacro e delle religioni).

Il serpente quindi ci porta ad uno sguardo più ampio, una visione cosmica di trasformazione che per il culto della Dea era essenziale; non così invece per la Chiesa che ha cercato di ridurre l’ampiezza della visione della dea per poter esercitare un potere di controllo sull’esistenza umana. Anche in Abruzzo, come in tanti altri luoghi risulta evidente la massiccia conversione che la Chiesa di Roma attuò, trasformando le figure simboliche della Dea in figure di santi e sante.
Ecco dunque la comparsa di S. Domenico, monaco eremita grandemente venerato in Abruzzo per essere stato riformatore dei costumi mondani della Chiesa, siamo negli anni a cavallo del 1.000, e che riunisce in sé gli attributi pagani del culto del serpente e del lupo. Nella festa di Cucullo la sua statua viene portata in processione per tutto il paese coperta dai serpenti che i Serpari gli pongono sul capo e sulle braccia.
Si dice che se i serpenti si scostano dal volto del santo sia segno positivo per le grazie a lui richieste, altrimenti si dovrà procedere per altre strade (anche al giorno d’oggi elargizioni in denaro sono sempre bene accette dalle chiese). Ho potuto constatare la convinzione ancora grandissima che la gente ha del Rito del Dente, rito che prevede di prendere con i denti la corda di una campanella e di farla suonare tre volte all’interno della chiesa, al fine di preservare la propria dentatura da malattia e dolore. S. Domenico porta sulla sua veste proprio un suo personale dente dotato di proprietà taumaturgiche e che si tramanda sia stato lasciato per aiutare gli abitanti di Cucullo dal ricorrere al dentista. La fila che si forma davanti alla campanella ha costretto perfino il vescovo che ufficiava la messa a dare un richiamo perché non si facesse troppo schiamazzo …

La tradizione spirituale pagana, che prende il suo nome da “pagus” villaggio e quindi altro non è che la naturale spiritualità contadina dei boschi e dei campi, si respira ancora nella forza che hanno questi riti e gli animali totemici, quali serpente e lupo, diventano così alleati per la vita quotidiana di gente che doveva propiziarseli al fine di non soccombere alla loro aggressività. Ai piedi di S. Domenico c’è un serpente come ai piedi della Madonna al fine di ricordare l’alleanza tra uomo e animale, alleanza che ogni anno deve essere rinnovata.

Nei volti di questa gente è ancora presente quella sana relazione di rispetto e venerazione per Madre Natura e per la dea che ne porta le sembianze. Camminando per le stradine di Pretoro e Cucullo ho sentito ancora viva questa energia di sacro e profano mescolati come il pane e il vino sull’altare della Dea. Anche se molti abruzzesi, piegati dai problemi economici, hanno dovuto trovare lavoro nelle città, l’usanza di ritornare al paese in occasione delle feste è ancora molto sentita: si riuniscono allora le famiglie, si raccontano le storie, nonni e nipoti si possono riconoscere e ricreare il collegamento dell’anima. Ho visto i vecchi vestiti tradizionali della nonna esposti da una giovane nipote nella grotta sotto casa che un tempo era forse la cucina, e nel richiedere se fosse possibile fotografare ho intuito un moto di orgoglio che ha arrossato il bel viso e dato una nota di grande umanità a quel momento.

Le donne abruzzesi hanno viso largo ed espressivo, come ben impresso nella statua della Madonna della chiesa di Pretoro. E’ una Madonna terrena, con un corpo largo e stabile, un grembo accogliente e nel volto una semplice sincerità che commuove. E’ il volto di una dea che conosce l’umana fragilità e che offre, come la Grotta di Rapino, un luogo di accoglienza e protezione. Qui le donne si inginocchiano nell’antica preghiera “Ave Maria, piena di grazia …” e nel silenzio di queste montagne la Bona Dea sempre le accoglie.

Ancora a Rapino si svolge ogni anno in questo periodo la processione delle “verginelle”, bambine dai sei ai dieci anni, che sfilano con gli abitini candidi sui quali le madri hanno cucito tutti gli ori di famiglia. Nell’antichità queste vergini sacre erano chiamate Hierodulae e portate al tempio quali prostitute sacre poiché la perdita della verginità era considerato atto da onorare e cosa della Dea, non certo dei padri e dei mariti. L’oro sugli abiti allude al sole, principio fecondo maschile e le verginelle distribuiscono il pane in segno di fertilità rinnovata. Anche a Goriano Siculi la festa di S. Gemma, come dice anche il suo nome, è il rito della femminilità, il fiore più bello, la gemma pronta a sbocciare così come il Fleur de Lys, il giglio e la rosa mistica, rappresentati in tutte le chiese dedicate a Nostra Signora.

“Io sono la Rosa di Saron, il giglio delle valli …” dichiara la sposa di Re Salomone nel Cantico dei Cantici e la tradizione cattolica ha identificato tutto questo in S. Gemma, una pastorella che trascorse i suoi giorni in ascetica preghiera per sfuggire alle insidie del conte Ruggero di Celano grazie all’aiuto di una comare o madrina. Ogni anno si ripete il rito della presentazione, della vestizione e dell’ accoglienza della ragazza da parte della comare, rinnovando il valore dell’alleanza tra donne.

Un’alleanza che si ritrova anche nella misteriosa figura del Guerriero di Capestrano esposto al Museo di Chieti, un busto di pietra calcarea con tracce di ocra rossa, trovato nel 1934 da un contadino poco fuori il paese di Capestrano. E’ una figura scolpita con arte raffinata che racchiude in sé molti misteri: le forme innanzitutto, in parte maschili (grandi spalle e torso potente) e in parte femminili (bacino largo, natiche rotonde e una fessura vulvare tra le gambe), un particolare elmo-cappello decorato con tre cerchi concentrici, le orecchie a forma di spirale, una maschera rituale che ne cela il volto, una triplice collana che finisce anch’essa con una spirale, una particolare posizione delle braccia, armi rituali (spada e accetta) e infine una scritta che è stata variamente interpretata. Nel corso di un ciclo di incontri organizzati dal Centro di Cultura delle donne Margaret Fuller di Pescara nel 2005, l’archeologa Kristina Berggren ci ha donato una illuminata interpretazione di questa statua che non sarebbe per niente un guerriero ma una guerriera, anzi forse un androgino che riunisce in sé i due principi della vita, maschile e femminile, yin e yang. Vicino al Guerriero di Capestrano è stato anche trovato un altro busto, definito un torsetto femminile con molti gioielli di squisita fattura scultorea … forse un’immagine di Regina? E se entrambe queste statue rappresentassero una Dea Doppia? Viki Noble ha pubblicato una interessante ricerca su questo archetipo che si ritrova in tante culture e che rappresenta una figura di femminile duale.

“L’immagine della Dea doppia rivela una donna che è sia lunare che solare, che possiede ed esprime la propria esperienza sia interiore che esteriore e che sa muoversi nel mondo con dignità e autonomia, seguendo le proprie priorità personali (…) La Dea Doppia è un’esortazione per tutte noi ad attingere alla potente corrente sotterranea dell’energia femminile che fluisce là dove siamo, dai tempi più antichi fino ad oggi, e a celebrare in ogni donna l’incessante fluire di yin e yang, buio e luce”. (Viki Noble, La Dea Doppia)


Questa enigmatica figura può ben rappresentare il mistero di una civiltà quale quella abruzzese che conserva in sé tanti aspetti del culto della dea senza saperlo più e forse senza volerlo sapere, come dimostra l’indignata reazione della direttrice del Museo di Chieti alla tesi esposta da Kristina Berggren.

A questa terra sono grata per avermi aperto uno scrigno e per avermi dato modo di riflettere sulla nostra storia di donne e sulle tradizioni che conservano l’Antico Sapere. Un grazie speciale va a Luciana e a Sandrina, mie compagne di e soprattutto a Giancarlo, lavoratore della Madre Terra e dell’anima…

(a cura di Elys)

Bibliografia
Luisella Veroli, Prima di Eva, viaggio alle origini dell’Eros, Editore Melusine
Luciana Percovich, Oscure Madri Splendenti, Editore Venexia
Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea, Editore Venexia
Miranda Gray, Luna Rossa, capire e usare i doni del ciclo mestruale, Editore L’Età dell’Acquario
Viki Noble, Il risveglio della dea, Editore Corbaccio
La dea Doppia, Editore Venexia
Elisa Ghiggini, Rosa Mistica, la tradizione della dea nel Nuovo Testamento, Editore Venexia
Centro di Cultura Margaret Fuller, Atti del Convegno 2005 “Sulle orme della Grande Madre”, Pescara
Il Rito dei Serpari, Editore Di Vitto
Lu Lope, Editore di Vitto

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