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Ynis Afallach Tuath

Sono tre i segni della saggezza...
Venerdì, 01 Aprile 2011 - 11:23 - 1943 Letture
Triadi Bardiche Prosegue con questo articolo la serie di studi sulle triadi bardiche chiamate TRIOEDD DEWIANETH CYMRY.

La triade che abbiamo deciso di analizzare è quella che così recita:
Sono tre i segni della saggezza:
semplicità, sforzo e lunga sofferenza.


Dinnanzi a questa triade, il primo interrogativo che sorge è: “come interpretare la parola ‘segni’”? Essi potrebbero essere le caratteristiche di chi ha maturato un’esperienza tale da averlo reso saggio, lì dove per saggio si intende colui che ha vissuto una vita di osservazioni e riflessioni su quanto ha visto, sentito, provato. Nel Vangelo di Giovanni la parola “segni” viene usata per designare i miracoli, ovvero la manifestazione e testimonianza delle opere di Cristo. Il segno potrebbe quindi identificare qualcosa che dà un indizio sull’origine, la provenienza di qualcos’altro – una sorta di impronta – ma, al contempo, può significare un punto d’arrivo, una meta. Spesso l’uomo usa questo termine per intendere una sorta di risposta a un enigma, un quesito. Quando, ad esempio, rivolgiamo preghiere agli dèi, capita di chiedere loro un “segno” (di essere stati ascoltati, di poter procedere sulla strada scelta ecc.). Il segno è quindi una comunicazione concreta, una specie di cicatrice che attesta – e quindi comunica – un evento, il suo essere accaduto. Il fatto che le foglie cadano dagli alberi è segno che l’autunno è cominciato; così come la luce negli occhi di una persona è segno del suo essere innamorata o del suo benessere interiore.

Analizzando i tre segni della saggezza, il primo evocato è la semplicità: un concetto che racchiude in sé una miriade di suggestioni. È comunque qualcosa che mostra, richiama l’attenzione e aiuta a mettere a fuoco i pensieri. Semplice è colui che non si perde in chiacchiere, che sa restare centrato e valuta le situazioni con umiltà, affrontando un passo per volta. Questo è tutt’altro che semplice, poiché essendo umani inevitabilmente cadiamo, nel tentativo di raggiungere la meta il prima possibile. Ciò che ne sgorga è proprio la sofferenza, grazie alla quale però impariamo a dare il giusto valore allo sforzo e alla semplicità delle nostre azioni. L’uomo conosce imparando, distruggendo gli schemi mentali ed emotivi restrittivi e limitanti e scendendo in profondità, lasciandosi alle spalle orpelli e legacci inutili, come Inanna che dinanzi ad ogni cancello si spoglia. La semplicità può anche identificare le basi, l’essenza di ogni cosa; la naturalità, l’essere primordiale. Cosa c’è, ad esempio, di più semplice dell’acqua, che racchiude, in potenziale, i tre elementi: l’acqua, appunto, l’aria (quando si trasforma in gas) e la terra (che permea di sé)? Il suo è un vivere semplice, primitivo, che contempla il mutamento e la stabilità allo stesso tempo. Suoi sono la costanza e il lasciarsi accadere: quando incontra un ostacolo non si ferma, lo supera, lo aggira, in qualche modo lo supera, senza badare al tempo che impiegherà per farlo. L’acqua non la si può fermare, perché se si cerca di contenerla, trova la via di fuga tramite la trasformazione. È il tutto in uno, il fluire di mille cose all’unisono.
In questo senso la semplicità è “economia” di pensieri e sentimenti, un alleggerimento e abbandono di ciò che appesantisce e ostacola il cammino, uno snellire i pregiudizi e le opinioni drastiche, il prendere la vita per come viene, senza opporre dannosa resistenza; levigare la severità, le convinzioni troppo salde e cementate, essere aperti. La nostra è invece una società fin troppo complessa, fondata sull’innaturale, che ha trasformato i saggi di un tempo – gli anziani – in pesi sociali di cui sbarazzarsi, rendendo l’età “matura” un momento della vita triste o, nel migliore dei casi, una rincorsa al passato, facendoci dimenticare il valore incommensurabile dell’esperienza.
Tathagata, uno dei nomi dati al Buddha, significa “uno che vive l’essenza della vita”, che accetta ogni cosa, totalmente, un puro testimone silente, senza giudizio perché la sua fiducia nell’esistenza è infinita, incondizionata. Questo è il segreto di tutti i Risvegliati...

Lo sforzo
è l’impegno, il rinunciare all’inutile e al superfluo per dedicare la propria passione e desiderio a ciò che davvero merita il nostro tempo. Possiamo considerarlo come il tentativo di travalicare i nostri limiti apparenti (quelli che noi stessi ci creiamo o ci lasciamo creare dal mondo circostante, talvolta per alibi, talvolta per pigrizia o per paura) per “diventare ciò che realmente siamo” (Teoria paradossale del cambiamento), a patto di partire sempre da un contatto intimo con noi stessi, altrimenti rischiamo di provocare una sofferenza inutile che ci fa invece perdere di vista la nostra stessa natura. È quindi anche coinvolgimento: per plasmare qualcosa, dobbiamo lavorarla con costanza e interesse, senza farlo in modo automatico. Se in una scultura vogliamo imprimere un’“anima”, dovremo prendercene cura, amarla, rinunciare a una parte di noi per cederla alla e condividerla con la nostra creazione. È in fondo il nostro viaggio di vita, una sorta di parto che prelude alla realizzazione di qualcosa. Pensiamo allo sforzo delle doglie, che è una fatica ma anche una gioia immensa!
Lo sforzo sottende anche il concetto di disciplina, ingrediente fondamentale di qualsiasi percorso e che tendiamo a sfuggire. Essa rappresenta l’esatto opposto della pigrizia, che porta a risultati disastrosi. La disciplina invece forgia, “indurisce” nel senso che fortifica. Lo sforzo e la disciplina richiamano alla mente l’immagine dello scudo e la spada. Con uno ci proteggiamo dai colpi, con l’altro aggrediamo (metaforicamente parlando, “mordiamo la vita”, la consumiamo, la viviamo attivamente).

La lunga sofferenza è imprescindibile dallo sforzo e dalla semplicità, nonché dalla conoscenza, poiché è in una spoliazione progressiva, lenta e graduale, ma anche sofferta, che l’anima si trasforma. Per questo diciamo che non basta una vita sola per divenire saggi. La lunga sofferenza va però integrata fattivamente nel cammino interiore affinché possa essere il combustibile nutriente della crescita e della maturità che conducono alla saggezza. Accogliere le difficoltà della vita ci mette in discussione e fa rimettere in gioco ogni volta, scoprendo sempre qualcosa di nuovo di noi e della nostra natura. Ci fa percepire piccoli rispetto alla Vita, ma al contempo sue parti integranti.
Il dolore può nascondere al fondo tesori inestimabili, se accettato senza frustrazione ma con piena coscienza. Importante non è tanto, e non solo, viverlo, ma “risolverlo” trasformandolo nel seme della nuova consapevolezza e consentendogli di renderci migliori. La sofferenza può infatti annientare il superfluo e in questo senso è apportatrice di semplicità: le grosse preoccupazioni ci fanno vedere le cose sotto una luce diversa, grazie alla quale tutte le sciocchezze per le quali ci affliggevamo scompaiono e riconosciamo immediatamente quali sono le cose serie e importanti... La sofferenza quindi consente di discernere, affina la capacità di scegliere dopo aver distinto, è movimento che consente, dopo averla attraversata, di capire e superare le divisioni apparenti. 
In realtà impariamo sia nel dolore che nella gioia, dalla quale riceviamo la fiducia in noi e l’amore per la vita. L’essere vivente però porta impressa nella sua memoria soprattutto le esperienze tristi, è qualcosa di atavico legato alla sopravvivenza, da qui l’impressione che le più grandi lezioni derivino dalla sofferenza. Ma la felicità ha lo stesso valore del dolore, sono sentimenti necessari l’uno all’altra, come quando comprendiamo il buio grazie all’esistenza della luce. Apprezzare il nutrimento della gioia è un grande esercizio di saggezza. Spesso diamo per scontate le cose belle, poi giunge il dolore a farcene ritrovare il senso e l’importanza.
Nella triade il termine sofferenza si accompagna all’aggettivo “lunga”, d’altronde quando si soffre il tempo davvero si dilata! L’uomo tende a sfuggire al dolore, ma ciò non è possibile perché esso fa parte della dimensione umana. Imparare ad accettare la sua esistenza forse riuscirebbe ad accorciare il patimento. Ma il riferimento della triade alla lunghezza della sofferenza potrebbe voler richiamare la nostra attenzione sul concetto di intensità. Come a dire: al momento del dolore, non fuggite, attraversatelo tutto, dall’inizio alla fine. Questo richiederà tempo (e fatica/sforzo) ma è l’unica cosa che garantisce di bruciare/consumare (quasi in senso iniziatico) tutta la sofferenza e di trasformarsi. In caso contrario, lasceremo sempre qualcosa di irrisolto alle spalle.

Forse oggi più che mai la saggezza va sviluppata consapevolmente, e forse oggi più che mai non è qualcosa che possiamo dare per scontato: è una scelta, in base alla quale dobbiamo prenderci carico di ciò che richiede. In questo senso i segni della saggezza sono un richiamo, un “memento” – come dicevano i latini – che chi intraprende un Cammino di Conoscenza non può assolutamente ignorare.


Note: N.B.: Un grazie a tute le sorelle dell’isola che hanno partecipato alla discussione da cui nasce questo articolo.

A cura di Eriu
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